Cover musicali. Il fenomeno

Le cover musicali si diffondono nel corso degli anni Sessanta e conoscono una grande diffusione in Italia a partire dal grande repertorio di canzoni in lingua anglosassone variamente ripreso e adattato in italiano.

 

cover musicali

La musica per tutti

 

Negli anni ’60 in ambito musicale si incrociavano in Europa due aspettative: un sistema di riproduzione e consumo della musica alla portata di tutti, e una musica divertente e nuova, che rompesse con la tradizione melodica e fosse adatta alla socializzazione (cioè al ballo, anche “scatenato”). La risposta arrivò da una parte dalla tecnologia, con l’avvento del 33 giri microsolco prima e poi dell’ancora più economico 45 giri, con il corredo di giradischi portatili a transistor, supporti e riproduttori a basso prezzo, e quindi ad elevata diffusione. Dal lato musicale la cultura più pronta a dare una risposta alla attesa di musica nuova si rilevò (naturalmente) quella anglosassone, cioè quella dei vincitori della (allora) recente guerra, che avevano a disposizione influssi stilistici importati (jazz e blues) ed autonomi (la musica tradizionale inglese ed irlandese), che avevano sicuramente la caratteristica di suonare “diversi” e "nuovi", ed erano supportati da ritmi adatti al ballo.

Così arrivarono ad ondate (di più o meno vasto successo) il rock’n roll, il twist, il folk, il beat, il rhythm & blues, il soul, il funky...

In Italia c’era grande predisposizione al consumo, ma insufficiente produzione, classico divario tra domanda ed offerta. Quale soluzione migliore che prendere la produzione anglosassone e riproporla come produzione propria?

Bisogna considerare inoltre che le radio libere non esistevano e la conoscenza della lingua inglese era assai ridotta, quindi le canzoni anglosassoni originali difficilmente potevano arrivare direttamente, se non per fenomeni planetari (Elvis Presley, Paul Anka). E anche in questi casi con qualche difficoltà. E' noto, per esempio, che al momento del loro massimo successo mondiale, a metà anni ’60, i Beatles avevano di rado i loro successi nella classifica italiana, viene sempre citato il caso dei Ribelli, che superarono i Beatles in classifica (ai tempi di Help!) con la loro canzone “casalinga” (del Clan Celentano, nel quale coprivano il ruolo del “complesso beat”), cioè Chi sarà la ragazza? (ovvero La ragazza del Clan, che peraltro era una cover).

 

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Quindi si intersecavano due approcci alle cover musicali. Il primo consisteva nel prendere un brano già di successo e farne la versione italiana, il che significava successo assicurato, grazie al traino internazionale (vedi la versione dei Dik Dik di Whither Shade Of Pale dei Procol Harum o Sono bugiarda di Caterina Caselli, dai Monkees), anzi c’era sicuramente un accordo tra le case discografiche per sfruttare a rotazione questi successi, affidandoli a questo o a quel cantante o gruppo considerato adatto, vedi per esempio il passaggio di testimone per i Procol Harum, il cui secondo singolo, Homburg, venne affidato ai Camaleonti. Un accordo che però ogni tanto saltava o veniva sospeso e quindi proliferavano le versioni (esempio Bang Bang di Cher, proposta contemporaneamente dall’Equipe 84, dai Corvi e da Dalida e da molti altri minori).

L’altro approccio era quello di andare a pescare nel vasto canzoniere anglosassone qualcosa da proporre come nuovo, perché non noto, non ancora proposto da noi, e c’erano gruppi specializzati in queste operazioni, come i Dik Dik dei primi anni o i Corvi, che praticamente non pubblicarono praticamente niente di proprio ma solo cover, a partire dal loro primo successo “Sono un ragazzo di strada” (che era la cover di un brano dei Brogues – I Rozzi – chiamato “I Ain’t No Miracle Worker”). Adesso chiameremmo questi gruppi cover band ma in questo caso non erano specializzati su uno specifico gruppo straniero.

La cosa curiosa è che, grazie proprio alla cover, l’originale inglese trovava spesso per questa via il sentiero per arrivare in Italia, come “versione originale di xy”, dedicata ovviamente a chi voleva “solo gli originali”, o aveva una maggiore curiosità sul mondo musicale anglosassone. Così arrivò, per esempio, al traino del successo dei Corvi  “Sospesa a un filo” l’originale “I Had Too Much To Dream” degli Electric Prunes, un complesso che anticipava la ormai prossima psichedelia, ma anche alcuni brani del Dylan del secondo periodo, come I Want You (della quale avevano proposto una cover i Nomadi). Nel caso degli Electric Prunes i discografici italiani (Ricordi, in questo caso) avevano provveduto prudentemente a tradurre anche il nome del complesso, come si può vedere nella copertina riprodotta a fianco, e non mancavano di sottolineare che si trattava di una "versione originale" di un successo già noto in italiano.

 

Una classificazione delle cover

 

 Si può tentare una classificazione delle tipologie di cover:

1.

da successi internazionali, già noti o in qualche modo annunciati al grande pubblico (es. Bang Bang, A Whiter Shade Of Pale ovvero Senza Luce, Nel 2023, ecc.), in genere di autori relativamente poco noti, legati al singolo di grande successo, o di autori che con quel successo si affacciavano sul mercato italiano; chi proponeva la cover puntava evidentemente a bissare il successo in Italia (il testo tradotto era in questo caso parente più o meno stretto dell'originale, salvo rari casi, in quanto troppo noto per travisarlo platealmente)

2.

da brani minori, o non molto noti in Italia, di gruppi o cantanti stranieri di grande successo (i Beatles per esempio): in questo caso un riflesso della popolarità dell'interprete originale si rifletteva sulla cover, consentendo in qualche modo di distinguere la proposta nella massa di nuove uscite, e dando qualche possibilità di successo in più;

3.

da brani stranieri di non grande successo, pescati nel vasto canzoniere anglo-americano, di autori poco noti; si individuavano brani che sembravano congeniali allo stile del cantante o del complesso (es. i brani dei Corvi citati in precedenza) e se ne faceva una versione italiana, ignorando nella grande maggioranza dei casi il testo originale (tanto nessuno o quasi ci avrebbe fatto caso, e scrivere il testo avrebbe richiesto meno fatica);

In questo ultimo caso la cover poteva essere poi utilizzata per almeno tre scopi:

A.

lanciata come lato A di un 45 giri, quindi puntare al grande successo

B.

servire per riempire il lato B di un singolo (non necessariamente una cover), abbassando al minimo il costo di produzione del lato B (che era una inutile necessità nella gran parte dei casi, perché del tutto ininfluente sulle possibilità di successo del lato A)

C.

oppure, infine, servire per completare il canonico LP che i complessi maggiori puntavano a fare uscire per consolidare la loro posizione come "gruppo arrivato".

In questo modo, nell'epoca d'oro delle cover, ne sono state prodotte a centinaia (più di 1000 sono censite nei nostri elenchi) con tirature dalla minima quantità consentita (poche migliaia di copie) fino ai milioni di copie dei grandi successi.

 

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La fedeltà della traduzione

 

E' noto che in molti casi le cover in italiano avevano un testo non fedele all'originale, anzi in qualche occasione completamente diverso o travisato o addirittura con senso totalmente opposto. C'è da chiedersi perché i parolieri italiani facevano la fatica di inventarsi un nuovo testo, pur avendone uno già pronto da tradurre ed adattare in italiano.

Anche qui si possono elencare alcune spiegazioni:

semplicemente, per non pagare i diritti, presentando il brano come se fosse originale (esempi: cercateli nell'elenco, non vogliamo urtare la suscettibilità di qualcuno);

per la difficoltà di adattare la metrica italiana al ritmo beat e rock, una conseguenza della grande differenza delle due lingue; in questo caso poteva essere mantenuta l'idea o lo spunto della canzone originale, ma il testo prendeva un'altra direzione (esempi: "Un ragazzo di strada" dei Corvi, da Ain't No Miracle Worker dei Brogues) oppure era in parte travisato (Un uomo rispettabile dei The Pops da Well Respected Man dei Kinks);

per la difficoltà di rendere in italiano immagini poetiche complesse, il testo italiano era magari "poetico" ma sostanzialmente diverso (esempio Senza luce dei Dik-Dik da "Wither Shade Of Pale" dei Procol Harum);

per esigenze di censura o auto-censura; il testo originale era considerato poco adatto al mercato italiano, non trasmettibile in radio (erano tempi di censura in RAI, gestita da una struttura chiamata pudicamente "commissione di ascolto"); esempio: "La casa del sole." da "The House Of The Rising Sun" o "Datemi un martello" da If I Had A Hammer di Pete Seeger;

perché serviva una base efficace per veicolare una propria idea di canzone, si prendeva quindi la musica e si buttava il resto che non interessava (esempi: Che colpa abbiamo noi da Cheryl's Going Home di Bob Lind, Prendi la chitarra e vai da "Lovers Of The World Unite", Ho difeso il mio amore da Nights In White Satin, La nostra favola, da Delilah di Tom Jones, e molti, molti altri).

 

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I cantanti multinazionali

 

Un consistente contributo al grande numero di cover pubblicate in italiano lo hanno dato anche i "cantanti multinazionali" attivi in molti mercati europei, e spesso anche in quello USA, e specializzati nel proporre successi propri o altrui in molte lingue. Principali esponenti sono state sicuramente Caterina Valente e Petula Clark, ma anche Françoise Hardy, Paul Anka, Neil Sedaka, Gene Pitney, Sylvie Vartan hanno pubblicato singoli in molte lingue. Anche diversi interpreti italiani hanno pubblicato i propri successi in altre lingue, con una prevalenza però per quelle europee, francese, tedesco e soprattutto spagnolo, mercati più ricettivi alla produzione italiana.

 

La fine di un'epoca

 

Perché a un certo punto il fenomeno si è esaurito? Il motivo è come sempre da ricondurre alla globalizzazione, la offerta di musica via radio è aumentata con la liberalizzazione dell’etere, i cantanti e gruppi anglosassoni sono diventati velocemente famosi anche da noi. Inoltre sempre di più i cantanti sono diventati personaggi, più che esecutori di canzoni (vedi il caso limite tra tutti, Madonna), e quindi i consumatori di musica pop hanno iniziato a desiderare di entrare in possesso del nuovo pezzo di quel cantante. Nella musica con qualche maggiore pretesa si cercava inoltre la originalità e la creatività, e quindi i semplici propositori di cover sono stati ricondotti velocemente al ruolo appunto di cover-band (ne esistono ormai per praticamente tutti i complessi di successo, del passato e del presente), mentre i gruppi italiani che volevano ambire a un  ruolo proprio dovevano produrre qualcosa di originale, possibilmente diverso dal modello anglosassone, ma non antagonista (un esempio, i Litfiba).

 

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Le cover musicali sono rimaste quindi solo per situazioni sporadiche di belle canzoni straniere non troppo note, che qualche artista italiano proponeva nel proprio song-book, perché le considerava affini al proprio mondo musicale. Qualche esempio, Eugenio Finardi che fece qualche anno fa la versione italiana di One Of Us di Joan Osborne (chiamata “Uno di noi”, sostanzialmente fedele), oppure Ron con la sua versione di The Road di Jackson Browne / Danny O'Keefe (“Una città per cantare”, il pezzo che peraltro l’ha riportato al successo alla fine degli anni ’70), o ancora Antonello Venditti con “Alta marea”, versione italiana (molto libera) di Don’t Dream It’s Over dei Crowded House. Come si vede tutti pezzi di artisti poco noti al pubblico di massa e congeniali e coerenti con il repertorio degli artisti italiani.

 

 

 

 

 

 

Fonte articolo: Musica & Memoria 2001-2016

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